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Nuovi equilibri

La visita di inizio agosto a Taiwan di Nancy Pelosy, importante politica statunitense, ha ulteriormente acuito la tensione nei rapporti fra il suo Paese e la Cina. Qualche giorno più tardi, cinque delle maggiori società statali cinesi hanno “lasciato” la borsa americana, preferendo la quotazione nella piazza di Hong Kong: fra queste cito Petro China, che ha un valore di mercato di circa 135 miliardi di euro, dunque oltre due volte e mezzo la nostra Enel, che vale quasi 50 miliardi di euro.

La notizia arriva dopo un lungo periodo di confronto/scontro fra le massime autorità di vigilanza dei mercati finanziari delle due superpotenze: da una parte l’americana SEC che, non fidandosi delle procedure e dei dati di bilancio delle aziende estere (in particolare cinesi) quotate nei propri listini, pretende verifiche e ispezioni molto approfondite, e dall’altra parte la cinese CSRC, portavoce delle società sue connazionali, che lamentano elevati oneri amministrativi per l’adempimento degli obblighi informativi (molto minori su altre Borse). Il nervosismo fra le due è salito anche a causa della vicenda occorsa nel 2021 al gigante del caffè Luckin Coffee (competitor di Starbucks), che è stato sbattuto fuori dal Nasdaq a seguito di bilanci gonfiati, e ha evitato il fallimento per il rotto della cuffia grazie all’intervento di due grossi investitori.

La fuga dagli Usa coinvolgerà probabilmente anche le altre duecento aziende “rosse” attualmente quotate a New York: ad “aprire le danze” ci ha già pensato lo scorso giugno Didi, concorrente di Uber (noleggio di veicoli con conducente) ma con base a Pechino.

I capitali del gigante asiatico non stanno scappando solo dai mercati azionari ma anche da quelli obbligazionari a stelle e strisce, infatti in circa un anno i Treasury (i titoli di debito pubblico USA) detenuti dalla Cina sono scesi di quasi il 10%, da 1.060 a 970 miliardi di dollari. Fra le possibili motivazioni cito le seguenti tre:

  1. poiché il dollaro si è apprezzato anche nei confronti del reminbi, le autorità monetarie cinesi potrebbero essere state invogliate a prendere profitto;
  2. e per la stessa ragione potrebbero invece non aver rinnovato titoli scaduti (essendo ora più cari);
  3. o semplicemente, in caso di possibile “peggioramento” della situazione Cina-Taiwan, la prima potrebbe voler evitare un eventuale blocco delle proprie riserve monetarie in dollari, così come accaduto alla Russia. 

I primari detentori di debito pubblico USA, oltre alla Cina, rimangono sempre il Giappone e la Gran Bretagna, rispettivamente al primo e al terzo posto della classifica con 1.240 e 615 miliardi di dollari. Per gli Stati Uniti diventa però una necessità non perdere gli ottimi rapporti con loro, dato che per il suo enorme debito pubblico deve mantenere obbligatoriamente i finanziatori: ricordo infatti che negli ultimi quindici anni, complici le diverse crisi (in primis quella finanziaria del 2008 col fallimento di Lehman Brothers) è salito, raggiungendo a fine 2021 i 29.000 miliardi di dollari, con un rapporto sul PIL del 133%. Ciò non può né deve spaventare noi risparmiatori, che possiamo stare tranquilli, se consideriamo gli ottimi tassi di crescita e la riconosciuta solidità della più importante economia mondiale.